Sono una ricercatrice nel campo delle arti digitali e delle pratiche immersive applicate al benessere psicologico. Il mio lavoro si muove tra arte contemporanea, neuroscienze e cultura tecnologica, con un’attenzione particolare a come l’esperienza estetica possa diventare uno spazio di trasformazione, cura e consapevolezza. Attualmente, dopo aver conseguito il dottorato, lavoro ad un progetto di ricerca finanziato che indaga il potenziale terapeutico dell’arte virtuale, combinando approcci interdisciplinari e coinvolgendo artisti, designer, terapeuti e utenti in esperienze immersive. Credo nella ricerca che si sporca le mani – quella che accade anche fuori dai laboratori e dai paper. Cosa mi nutre davvero nel lavoro, oggi? Vedere lo sguardo di qualcuno cambiare dentro un ambiente virtuale. Una volta, durante un test, una partecipante con un disturbo d’ansia mi ha detto: “È la prima volta che sento il mio corpo come un posto sicuro”. In quel momento ho capito che stavo lavorando non con la tecnologia, ma con la fiducia umana.
Il mio “fuori menu”? La capacità di ascoltare le emozioni altrui anche quando arrivano camuffate da dati, dispositivi o silenzi. Non è una soft skill, è quasi un radar: ho imparato a cogliere cosa si muove sotto la superficie dei discorsi – nei partecipanti di una VR experience, in una stretta di spalle, in una pausa di troppo durante un’intervista.