“Pensavo di essere un mago e invece ero solo il buttadentro di una discoteca” | Rethinking Advertising: come orientarsi in un mondo dove la magia è finita

Quindici anni fa, quando mi ci sono affacciato professionalmente, il digital advertising era qualcosa di magico: con budget minimi portavo sui siti dei clienti una marea di traffico qualificato, che generava conversioni importanti e fatturati in crescita esponenziale.

Oggi però ho capito che, più che un mago, ero un buttadentro davanti alla discoteca: intercettavo chi aveva già deciso di entrare, senza preoccuparmi troppo del contesto. Mi bastava che entrassero col mio invito in mano. E in fondo andava bene così: tutto misurabile, tutto chiaro, tutto veloce.

“La creatività è irrilevante”, era il manifesto dell’età d’oro della performance e, mentre ai creativi ballava la sedia, noi specialisti del digital ci prendevamo la scena.

Nel frattempo, tutto è cambiato. I vecchi silos tra online e offline sono saltati, i consumi post-pandemia sono diventati imprevedibili, e la misurazione si è fatta sempre più opaca: cookie in via di dismissione, walled garden, normative sulla privacy sempre più stringenti. Come se non bastasse, è arrivata l’intelligenza artificiale a rimescolare le carte, portando più domande che certezze.

In questo scenario, puntare solo sulle conversioni è diventato un suicidio strategico. Il brand è tornato al centro: guida le scelte dei consumatori e, nei momenti di crisi, rappresenta l’unico vero asset differenziante. Facile a dirsi, difficile a farsi.

Di cosa mi sono nutrito per evolvermi e orientarmi in questo caos?

– Classici intramontabili: da Reeves a Ogilvy, da Binet a Sharp – i fondamentali dell’advertising restano validi anche in uno scenario stravolto.

– Metodologie ibride: ho portato nel digitale strumenti “tradizionali” (share of voice, orchestrazione multicanale, reach incrementale) e, viceversa, nel marketing classico la granularità dei dati online.

– Osservazione sul campo: dieci anni di agenzia, clienti di ogni taglia e settore, un team che spazia dal content for performance alla system integration: un osservatorio empirico che consente di cogliere connessioni tra fasi e canali della customer journey.

– AI come acceleratore, non scorciatoia: dai sistemi generativi ai modelli predittivi per l’allocazione del budget, l’AI è utile solo se poggia su fondamenta strategiche solide.

Cosa porto al tavolo di BIG:

– Una retrospettiva critica (successi e abbagli) su come il boom digitale abbia plasmato l’industria.

– Un framework pratico per ricombinare strategia classica, sperimentazione analitica e strumenti AI, utile a brand e agenzie che devono fare di più con meno.

– Un invito a “nutrirsi di altro”: nel contesto dell’advertising, significa superare i confini tra discipline, canali e competenze. Non basta affidarsi solo al dato o solo alla creatività, serve un pensiero che tenga insieme tutto.

E se oggi ci chiediamo ancora “qual è la creatività che performa meglio?”, forse dovremmo rispondere: quella che sa nutrirsi di tutto. Dei dati, delle idee, delle persone, delle tecnologie. Perfino dei vecchi manuali, tirati giù dalla polvere.

Perché oggi, se vuoi fare la differenza, non basta più aprire la porta e far entrare chi passa. Serve visione, serve metodo. Serve anche fame. Ma quella giusta.

Paolo Ratto

Marketing Strategist e cofounder @TWOW

Marketing Strategist ossessionato (in senso buono) dall’Advertising, nel 2015 fondo con Emanuela Genovesi TWOW, digital agency votata al santo dell’elasticità, che va piano, sana e (speriamo) lontano, sforzandosi di mettere al centro le persone prima ancora delle performance. Oggi una delle cose che mi nutre di più nel mio lavoro è il rapporto con il/la marketing manager d’azienda che più che di servizi ha bisogno di risolvere enormi complessità. O di pastiglie per il mal di testa.